Potrei dire che tutto è cominciato quando avevo più o meno diciotto anni, forse anche diciannove, in un paesino della mia provincia, in una casa abbandonata, anche se non lo era del tutto. Era una di quelle case in ristrutturazione, lasciate così, abbandonate solo la sera quando gli operai tornano dalle proprie mogli. Una di quelle case che al posto del cancello c’ha un nastro bianco e rosso, manco se quel nastro potesse fermare visite inopportune. Potrei dire che tutto è cominciato a Barcellona, in un appartamento pieno di studenti presi da deliri ormonali che non facevano altro che scopare e studiare con la bottiglia di whiskey a fianco all’orologio, quello del tempo infinito delle pagine di storia. Forse tutto è iniziato a scuola, su delle assi di legno di un palco, con un mucchio di adolescenti dai capelli lunghi e presi da una tecnologia che stava muovendo i primi passi. E le sigarette e le ragazze fin troppo smaliziate per essere adolescenti. I motorini e la miscela, (cinquemila lire per una scopata in campagna) gli elastici per i capelli al polso e le aule vuote e buie, pulite e chiuse per il giorno dopo, per le lezioni di tecnologia e storia, per quelle di italiano. Forse è iniziato tutto lì per la voglia di qualcosa che si vorrebbe avere ma che come al solito non si può. È cominciato tutto per caso in una di quelle aule vuote e al buio dove di sicuro al mattino non potevano esserci né gambe nude e belle né baci umidi pieni di adolescenza. Al mattino non c’erano di certo gli occhi chiusi e i capelli sciolti.
Ora c’era il suo culo sul banco al posto delle cartelle e le impronte delle mie mani grandi su quel finto legno verde dove il pennarello nero segnava le iniziali di studente o un numero di telefono. C’erano formule di matematica e di fisica, su quel banco, scritte a matita leggera. Quel banco era il mio ed io ero all’ultimo anno di una scuola che non mi andava tanto. Quel banco era il mio. Era il mio dal primo giorno di scuola e conoscevo a memoria quella classe, e anche se era buio perché a scuola le persiane delle classi al primo piano venivano sempre chiuse, io potevo muovermi come se al posto dei miei occhi avessi un visore notturno. Sapevo ogni sedia, ogni banco, la cattedra e la lavagna che non era appesa al muro, ma era stata spostata per far permettere a Max di leggere meglio. Max non ci vedeva tanto bene, portava degli occhiali spessi. Erano il quarto paio quell’anno. L’ultima volta era stata una pallonata durante ginnastica.
Noi della V ETA non è che facevamo della ginnastica vera e propria, come quella che si vede in televisione con gli esercizi e tutto quanto. Noi facevamo due squadre, gli zaini uno sopra all’altro a fare i pali delle porte, e via a giocare a pallone. Ecco, Max era in squadra con me e non giocava bene a calcio, anzi era proprio una schiappa. Ma una volta segnò un gol a dir poco spettacolare, scartando tutti dalla propria aria, e da quel momento ha sempre giocato. Ovviamente faceva il difensore. Max non era il suo nome, ma dopo quel gol lo diventò.
Non tutti avevamo dei soprannomi . Non tutti avevamo fatto cose spettacolari per meritarcene uno, come Parola, che non parlava mai con nessuno. Ecco questa era una delle cose spettacolari. Lui ti parlava scrivendo. Aveva un blocchetto appeso al collo con del filo rosso ed una penna. Tu gli parlavi e lui scriveva. Era difficile con Parola. Il tempo delle battutacce adolescenziali con lui non esisteva così come la frenesia di fare qualsiasi cosa. Con Parola dovevi stare calmo. Era snervante comunicare con lui, dovevi aspettare che scrivesse qualcosa con la sua penna. Noi non sapevamo se fosse muto o cosa, ma non parlava e se ne stava tutto il giorno al suo posto, seduto al suo banco con i suoi fumetti e i suoi supereroi disegnati ovunque. Parola non andava mai alle interrogazioni, per lui c’erano solo compiti scritti. Un giorno Parola andò in bagno (per uscire, alzava il dito al cielo e lo teneva puntato verso il soffitto). Lì due tizi iniziarono a prenderlo in giro. Parola si girò e iniziò a pisciargli addosso. E poi rise. Quei due però gli spaccarono il muso e noi di Parola sentimmo le grida. L’unica volta che sentimmo Parola emettere suono. Una volta in classe venne lo psicologo, che a dire il vero era una donna, una di quelle che ti lascia senza fiato e non era manco bionda o con le tette grosse (quello era il periodo delle tette grosse, cioè a tutti piacevano le tette grosse, e non è che dovevano essere rifatte, dovevano semplicemente essere grosse con i capezzoli marroni e l’aureola attorno più chiara, marrone e grossa). Entrò in classe a prendersi Parola e noi non riuscimmo a dire assolutamente niente. Entrò in classe che profumava di donna. Noi, il profumo di una donna, era la prima volta. Le professoresse puzzavano solo di vecchio. Puzzavano di denti gialli e di calze scure. Di gonne lunghe alle caviglie. Puzzavano di MS e caffè. Quello della psicologa, invece, era uno di quei profumi che non trovi nei negozietti dei vicoli. Il suo veniva direttamente da Parigi e sapeva di croissant appena sfornato, sapeva di foto appena sviluppate e di pittura ad olio. Quel profumo ti faceva pensare alla Senna e al Louvre, ai bistrot o al jazz della Métro. Prese Parola e se lo portò con sé. Quando ritornò era sola e aveva dei graffi sulla faccia. Quel giorno a scuola vennero i genitori e la polizia e non vedemmo più Parola. Se l’erano portato via.
Sul mio banco ora non c’èrano più penne e matite, libri e sigarette, ma il suo culo nudo, bianco e nudo. La gonna, quella verde e corta con le pieghe era finita chissà dove lanciata per aria. Riuscì solo a sentire che cadeva a terra, su quel pavimento di mattonelle nere e bianche, ma non come una scacchiera, era come marmo. Quel pavimento era di finto marmo bianco e nero, e la gonna verde con le pieghe era finita a terra ed io avevo sentito quell’aria che muoveva sulle gambe, leggera, quell’aria che ti solletica un po’, e il suo culo bianco era sul mio banco, dove il giorno dopo al suo posto ci sarebbero stati i compiti di fine anno, quelli che dovrebbero farti recuperare qualche voto lasciato indietro nell’inverno passato a fumare nei bagni della scuola. E come avrei potuto concentrarmi pensando agli odori e alle impronte, pensando al buio e ai silenzi di quando non sai che cosa dire, quei silenzi che ci sono perché è la prima volta che ti capita e ti sembra che stare zitto sia la migliore cosa da dire in quei momenti. Non si è grandi abbastanza per poter dire qualcosa, non si è grandi abbastanza per fermare le gambe e le ginocchia, per non toccare tutto freneticamente. Era pomeriggio e faceva caldo e, pure se dalle persiane passava poca luce, riuscivo a vedere i suoi seni bianchi e marroni, piccoli bianchi e marroni. Il reggiseno era ancora allacciato. Era il mio primo reggiseno e quello era rosa con un merletto ai bordi. Lo so perché lo sentivo sotto le dita e poi era liscio come seta ed era imbottito. Rosa e imbottito, liscio e con i merletti ai lati. I suoi capelli li avevo sempre in bocca, erano biondi e ricci ed erano ovunque. Avevo le labbra tutte bagnate e i suoi capelli mi si appiccicavano al viso. Alice, almeno così si faceva chiamare, l’avevo appena conosciuta. Sapevo che aveva la mia stessa età e avevo il suo numero di telefono. Scritto su un biglietto di un pullman, con una penna gel viola. Biglietto verde e penna viola. Quel bigliettino me lo aveva lasciato in un libro, dicendomi che ai libri non si piegano gli angoli delle pagine per tenere il segno. Io non la chiamai. E se avesse risposto la madre o addirittura il padre, cosa avrei inventato? Un pomeriggio, però, mi disse a che ora chiamarla. Me lo sussurrò all’orecchio.
- Alle 16.
Così disse. - Alle 16. Io sarò al telefono. Non un minuto prima, né uno dopo. Devi essere preciso.
Era una prova, lo sapevo, mi stava mettendo alla prova. Non era mica semplice essere puntuale e telefonarle alle 16.
Il mio telefono era in cucina. Prima, a casa, avevamo un solo telefono e mi ricordo che dovevo chiedere sempre il permesso a mia madre per telefonare. Non si trattava di un permesso vero e proprio, era più un istinto a controllare tutto, di sapere qualsiasi cosa succedesse in quella casa. Mia madre era fatta così. Da piccolo ricordo che mi nascondevo nel ripostiglio con il telefono. Per fortuna il filo era abbastanza lungo. Mi chiudevo dentro con la schiena appoggiata alla porta.
Io e Alice facemmo l’amore quel pomeriggio e il giorno dopo non andai a scuola. Era come una malattia. Era come avere la febbre. A scuola non ci si andava per via della febbre o per il mal di gola. E non è che poteva venirmi la febbre così, da un giorno all’altro. Mia madre mi avrebbe mandato lo stesso, oppure voleva che le dicessi la verità. Insomma mia madre non avrebbe dovuto sapere niente e Alice non doveva esistere. Alice era come una malattia. Non potevo andare a scuola con Alice, non rientrava nei programmi, anche se non era stato programmato proprio niente.
Non potevo sopportare di non vedere più le impronte sul banco, di vedere il foglio bianco del compito di italiano. Cosa avrei mai potuto scriverci, e poi dovevo vedermi con lei, e poi dovevo imparare a fare la firma di mia madre che mi credeva a scuola, e poi dovevo inventare qualcosa, inventarmi il compito. Mia madre voleva sapere tutto, essere a conoscenza di qualsiasi cosa. Dovevo stare attento a non tornare prima a casa. Dovevo stare attento a non tornare tardi. Mia madre era maniacale. Mia madre era folle nel suo desiderio di proteggermi.
Quel pomeriggio facemmo l’amore, io e Alice, e non andammo a teatro benché tutti aspettavano noi. Io ero una specie di capocomico, una parte davvero importante, parte che non ero sicuro di volere ma che comunque mi procurava un certo rispetto e ammirazione da parte degli altri attori. Mi dava prestigio. Per la prima volta ero un leader, un capo, un condottiero di un’armata che vinceva la sue guerre armata di copioni. Dopo quell’anno non sarei mai stato più un leader e questo lo sapevo fin troppo bene, ma decisi di godermi quel momento fino in fondo. Pensai che nessuno potesse ostacolarmi, ero una specie di Dio al quale non poteva succedere niente se non prendere l’ennesimo 4 in matematica. Era una cosa questa che mi faceva ridere tantissimo, ma era la mia occasione e non potevo rovinarmela per un pessimo voto in una materia che non m’interessava. Certo, in estate sarei stato costretto a frequentare i corsi di recupero, e probabilmente sarei andato a togliere la polvere in una delle tante classi mentre una professoressa spiegava qualcosa. Non m’importava e per questo finimmo in quell’aula, io e Alice, per questo finimmo col fare l’amore. Ero forte. Ero più vicino ad essere un uomo, uno grande, anche se la macchina ancora non la sapevo guidare.
Eravamo per i corridoi. Erano lunghissimi e le pareti erano bianche e c’erano appese delle fotografie di studenti che avevano fatto qualcosa di buono. Studenti ripresi a lavorare nelle varie officine delle scuole. C’erano foto in bianco e nero e foto a colori ed erano tutte belle incorniciate ed erano il vanto dell’intero istituto, il vanto dei professori andati in pensione. Guardandoli bene tutti quei volti appesi ad un chiodo potevamo riconoscerci, erano tutti uguali con quegli occhialoni per ripararci e i guanti marroni, quelli di pelle. Ci fermammo a guardare quelle foto, quei ragazzi che ora non erano più tanto ragazzi, e chissà cosa facevano ora, chissà quali risposte alle speranze di quella scuola. Un giorno ci avrebbero appeso noi anche per via del telescopio. Stavamo costruendo un telescopio enorme che sarebbe stato impossibile spostarlo dalla scuola, per via del peso. Era tutto in ferro, e quello era l’unico materiale che ci permettevano di lavorare. Un giorno ci sarei finito anche io su quel muro, con i miei occhialoni e i miei guanti di pelle marrone. Lo sapevo, ci sarei finito anche io. Le foto le avevano già scattate.
Io e Alice non dovevamo essere lì per i corridoi. Avremmo dovuto fare il giro, quello lungo. Saremmo dovuti entrare dal cancello secondario, quello che portava anche alla casa del custode, un vecchio che ogni mattina aspetta la morte sul ciglio della sua porta d’ingresso. Una di quelle persone la cui immagine resta impressa nella memoria per troppo tempo, come una canzone che passa alla radio e si fissa sulle labbra anche se non si vuole. Sua moglie era morta da poco e lui non faceva altro che bere e aspettare, mentre al suo viso, ogni giorno, si aggiungeva una piccola ruga. Se ne stava sempre seduto lì, su quella sedia di paglia davanti alla sua porta verde con la pittura tutta scrostata dal caldo e dalla pioggia. Aveva sempre una giacca di velluto e mille cicche di sigarette nel posacenere. L’unica cosa che riusciva a fare era potare le rose della moglie. Di quelle aveva molta cura e ce n’erano di gialle e rosse, rosa e bianche. Erano le uniche cose che lo facevano sorridere, erano le uniche cose che gli erano rimaste della moglie e lui le odiava, ma non poteva lasciarle appassire. Rideva perché ci litigava sempre, con la moglie per via delle rose. Era costretto a potarle, era costretto ad innaffiarle. Era costretto ad aiutarla, la moglie, per questo rideva. Per questo le odiava. Ora però s’era rassegnato e da un certo punto di vista non le odiava più e addirittura qualche volta cercava di sentirne anche il profumo. È strano, delle volte ti mancano proprio quelle abitudini che non avresti mai pensato minimamente potessero far parte della tua vita. Poi ecco un giorno, uno qualsiasi, ti ritrovi che non puoi fare a meno di quelle abitudini e ti svegli al mattino pensando solo a quelle, alle abitudini odiate.
Io e Alice, quel giorno, passammo per il cancello principale perché a me non andava tanto di vederlo, mi metteva tristezza e quel pomeriggio non volevo essere triste.
Entrammo nella mia classe. Si dice così quando per cinque anni hai occupato un certo posto. Diventa tuo e nessun altro può prenderselo. La sedia resta sempre la tua, come il banco di fòrmica. Avevo dimenticato il mio copione, per questo entrammo nell’aula. Ancora non avevo imparato la mia parte a memoria, o meglio, riuscivo sempre a dimenticarmi dei passaggi nei monologhi del mio personaggio. Ecco, avevo dimenticato il copione e quello mi serviva. L’aula era buia e Alice chiuse la porta. Non mi aspettavo che potesse farlo, ma lei chiuse la porta e iniziò a parlarmi. - Ti amo. Oh Dio mi è uscito di slancio. Io ti amo. Ecco l’ho ridetto. Ho cercato di non dirlo. Mi sono sforzata di reprimerlo. Con Michele non avrebbe mai funzionato perché io amo te. Ti amo talmente tanto… io ti ho dentro di me. Tu sei una malattia e sei dentro di me e non puoi più uscire. E non c’è verso, non esistono medicinali come per i pazienti. Ce ne sono alcuni che non ce la fanno e sono costretti a morire. La maggior parte muore con qualcosa ancora da dire e non l’ha detta. E l’altra persona, la moglie, il marito, la mamma o il padre, non lo sapranno mai. Il ragazzo o la ragazza non saprà mai di quella volta o di quell’altra. Magari non sapranno mai che sono stati traditi. Magari la ragazza della porta accanto, quella che vede ogni mattina perché escono agli stessi orari, non saprà mai che dall’altra parte c’è un ragazzo che non può vivere senza di lei. Delle volte le abitudini ci fanno rimandare cose che altrimenti sarebbero inevitabili. Magari nella metro il ragazzo che si è alzato per far sedere una bionda con le scarpe di ginnastica, non andrà mai con lei ad una cena in centro. Non sarà mai invitato per un caffè e quel posto resterà per sempre l’ultima cosa che saprà di lei. Un sediolino rosso con delle scritte di qualche ragazzino di periferia. Io ti amo e volevo dirtelo. Non riesco a dormire, non riesco a respirare, non riesco a mangiare e ti amo in ogni momento in ogni minuto di ogni giorno. Io, io amo te, mi sento bene solo a dirlo, mi sento meglio e, e non voglio che questa cosa rimanga così com’è. Dentro, nascosta. Non voglio essere come un sediolino in una metro o una porta che non si aprirà mai. Io ti amo.
Le mani le tremavano. Aveva gli occhi spalancati e le mani che le tremavano e le puntava contro di me. Mi indicava. Palmi aperti. Le sue mani non erano tese ma le tremavano. Le tremavano le mani. Erano pulite. Appena lavate e sapevano di sapone, quello liquido. Erano come le mani dei dottori, dei chirurghi, quelli hanno sempre le mani pulite.
Avevo appena trovato il copione, e lo tenevo stretto. Non sapevo che farci. Avrei dovuto metterlo in tasca, quella posteriore del jeans, prima che lei mi dicesse ti amo. Prima che mi puntasse le mani pulite, con i palmi aperti verso di me. Era lì davanti, immobile, con i capelli che le coprivano in parte gli occhi. Aveva chiuso la porta e m’era venuta incontro. Aveva fretta, non so perché ma lo capivo dalla voce. Andava di fretta perché ha chiuso la porta con violenza, come quando c’è qualcosa che non si può rimandare e allora si corre e si sbattono le porte. E poi alla fine si dimentica sempre qualcosa. È inevitabile. Alla fine ripassi a memoria tutte le cose che hai con te. Le chiavi dell’auto, il cellulare, le sigarette e l’accendino. Le bollette da pagare, i soldi e la carta di credito. Ma alla fine c’è sempre qualcosa che dimentichi. Alla fine, quando si va di fretta, c‘è sempre qualcosa che non t’aspetti. L’imprevisto che non puoi evitare. Quell’imprevisto ero io. L’imprevisto era la pioggia d’estate, l’ombrello lasciato a casa. Le mani le aveva in tasca. La borsa appesa alla spalla. Capelli biondi e le mani in tasca. Io stavo ancora cercando il copione quando mi venne davanti.
- Io ti amo
E le sue mani erano aperte. - Io ti amo. Ecco l’ho detto.
Era come se non potesse farne a meno di dirmelo. Certo era il momento meno appropriato. Eravamo nella mia aula, a scuola di pomeriggio. E lei ad un certo punto se ne venne che mi amava e non poteva farne a meno. Le mani erano impazzite. I suoi occhi neri mi fissavano e non aspettava nessuna risposta, o meglio l’aspettava ma quello non era il momento. Doveva ancora finire, doveva spiegarmi da dove veniva il suo amore per me. Io ti amo continuava a dire. Non era come un disco rotto, come un cd in macchina che salta per via delle buche. Noi non eravamo in macchina eppure qualcosa saltava perché lei continuava a dire che mi amava. La sua voce era pulita, perfetta, liscia, decisa. La sua voce era nera. Delle volte nella voce c’è anche un po’ di grigio, delle sfumature che non ti aspetti dalla voce. Quella volta, però, non c’era la minima possibilità di trovarci qualche sfumatura. Ogni persona ne ha una, di voce. La voce è come le impronte digitali. Ognuno ha la sua. Lei finalmente aveva una sua voce ed io per la prima volta la stavo ascoltando. Forse era per questo che non riuscivo a dire niente. Ero bloccato. Il copione nella mano sinistra, quasi congelata. Ero appoggiato al mio banco, verde con le scritte. Ero fermo, immobile, fisso nei suoi occhi che mi cercavano nella penombra della classe. Non ricordo di preciso che ore fossero, ma di sicuro era già tardi e le sue mani continuavano ad indicarmi. Ora che ci penso bene non era come se mi indicassero, era come se aspettassero. Aspettavano e tremavano. - Io ti amo e te lo dico ora e non è che sono pazza, e non è che pensi sempre a te, ma io ti amo e dovevo dirtelo.
I capelli le continuavano a cadere sugli occhi e le mani non erano più tese come prima, quando mi indicavano o aspettavano qualcosa da me. Forse aspettava un mio gesto, un mio avvicinarsi a lei. Forse era anche pronta a non avere risposta. Non lo so. Sentivo solo il bisogno di lanciare qualcosa lontano. Scagliare quel copione nel muro, come quando qualcosa va storto e si è nervosi a tal punto da lanciare la prima cosa che si ha per le mani. L’orologio regalato dalla nonna. Le chiavi. Le monete. Il tabacco con le cartine e i filtri. Un blocchetto per gli appunti. Una penna. Lanciare il cellulare, ma il messaggio o una telefonata poi non sarebbe mai arrivata. Ancora non era finito e forse non lo sarebbe mai stato. Si ha il bisogno di lanciare qualcosa per liberarsi di un peso. Come se l’orologio potesse fermare il tempo. Cadendo a terra il quadrante si sarebbe rotto. Le lancette si sarebbero fermate a segnare per sempre quell’orario. - Ti amo. Questo è quanto.
Era ancora più ferma nella sua decisione. E questo è quanto. Non mi lascia via di scampo. Non avevo alternative. E questo è quanto. La raggiungo, due passi verso di lei, verso le mani che da grandi sarebbero diventate mani da chirurgo, già pulite, e che ora tremano. Le mani che le tremano per via della penombra, per via di quel momento che non sarebbe mai più tornato. Due passi verso i suoi capelli che le cadono ondulati sulle spalle. Verso quei capelli che le danno fastidio agli occhi.
Quando è buio le cose si fanno con molta più semplicità. Non si ha paura di sbagliare. Nel buio le cose le fai e non hai paura, nessuno può vederti. Non è un buio che fa paura. Non è come quando sei bambino nella stanzetta che conosci a menadito, ma che di notte si trasforma in un covo di mostri. Quella tua stanza di notte diventa immensa ed ogni minimo rumore si amplifica mentre aspetti che qualcosa esca dall’armadio. E resti immobile. Non muovi un muscolo per non essere scoperto, per non far sapere a nessuno che sei lì sotto le coperte ad avere paura. Quel buio era eroico come i VHS porno gettati dalla finestra, quella del bagno che dava sulla campagna cittadina abbandonata, dove la sera i ragazzi ci andavano a scopare e a drogarsi. Una volta provai a recuperare una di quelle cassette, ma fu tutto inutile. Scavalcai la recinzione alta, tutta verde arrugginita, ma fu tutto inutile. Era come scomparsa, eppure non potevo averla lanciata lontano. Era come inghiottita. Scomparsa, svanita tra fazzoletti e siringhe. Quella era la cassetta della serata da un nostro amico, uno ricco. Tanto ricco quanto stupido, da non ricordarsi il codice dell’antifurto di casa, e così ad un certo punto alle nostre spalle, mentre guardavamo le star del nudo che urlavano, sentimmo i suoi genitori che erano stati contattati dalla polizia, per via dell’antifurto. Quel buio dell’aula di un pomeriggio d’estate era un buio tutto eroico, come le seghe quando non c’era Internet. Dovevi mandare tutto a fantasia, o quando t’andava bene, nascondere le pagine patinate in qualche anfratto. Quelle pagine che avevi giocato alla morra cinese per decidere chi andava a comprarle. - Io ci metto i soldi e tu vai dentro.
- No facciamo così. Giochiamocelo. Sassocartaforbice. Sassocartaforbice. Sassocartaforbice.
E finiva sempre che ad entrare ero io. Ero io a sbirciare nel reparto vietato ai minori. Era scritto su un adesivo giallo e rosso. Vietato ai minori. Ma i soldi li avevo e non volevo solo sbirciare. - Bambino, allora che fai: lo compri?
Quella penombra era eroica e non erano ammesse paure di nessun genere. Non c’era lo spazio per quelle, non c’era il tempo che comunque sembrava si fosse dilatato.
Quel buio e quel tempo e quell’eroismo rimasero fermi lì in quella scuola. In quell’aula. Alice il giorno dopo, quando ormai non era più una bambina, si gettò dall’ultimo piano del suo palazzo. Prese il mazzo di chiavi di suo padre. Salì le scale. Contò i gradini uno ad uno, per non distrarsi da quello che stava per fare. Lì si accorse che le sue scarpe bianche da ginnastica erano macchiate. Si fermò e strofinò un dito sulle macchie, per farle sparire. Riprese a salire e a contare. I suoi passi erano lenti e ben scanditi dai numeri. Cercò la chiave. Non aveva mai aperto quella porta. Non era mai salita lassù. Chissà cosa poteva mai esserci su quel terrazzo per non poterci mai andare. L’ultimo gradino. Contò anche quello. Aprì la porta di ferro arrugginito che cigolava. Attraversò tutto il terrazzo. Il pavimento era tutto nero. Era una specie di guaina nera e faceva caldo. Ad Alice dava fastidio la puzza di plastica che emanava quella guaina tutta nera. Su quel terrazzo c’erano solo antenne per la televisione, piccioni e caldo. Salì sul cornicione, abbassò la testa e saltò giù.